Metrica: interrogazione
97 settenari (pezzi chiusi) in Ezio H 
   Se tu la reggi al volo,
su la tarpea pendice
l'aquila vincitrice
sempre tornar vedrò.
   Breve sarà per lei
tutto il cammin del sole;
e allora i regni miei
col ciel dividerò. (Parte con Varo e pretoriani)
   Pensa a serbarmi, o cara,
i dolci affetti tuoi;
amami e lascia poi
ogni altra cura a me.
   Tu mi vuoi dir col pianto
che resti in abbandono.
No, così vil non sono;
e meco ingrato tanto
no, Cesare non è. (Parte)
   Se povero il ruscello
mormora lento e basso,
un ramoscello, un sasso
quasi arrestar lo fa.
   Ma se alle sponde poi
gonfio d'umor sovrasta,
argine oppor non basta;
e co' ripari suoi
torbido al mar sen va. (Parte)
   Ancor non premi il soglio
e già nel tuo sembiante
sollecito l'orgoglio
comincia a comparir.
   Così tu mi rammenti
che i fortunati eventi
son più d'ogni sventura
difficili a soffrir. (Parte)
   Va', dal furor portata,
palesa il tradimento;
ma ti sovvenga, ingrata,
il traditor qual è.
   Scopri la frode ordita;
ma pensa in quel momento
ch'io ti donai la vita,
che tu la togli a me. (Parte)
   Recagli quell'acciaro
che gli difese il trono;
rammentagli chi sono
e vedilo arrossir.
   E tu serena il ciglio, (A Fulvia)
se l'amor mio t'è caro;
l'unico mio periglio
sarebbe il tuo martir. (Parte con guardie)
   Finché per te mi palpita
timido in petto il cor,
accendersi d'amor
   Nell'amorosa face
qual pace ho da sperar,
se comincio ad amar
   Ecco alle mie catene,
ecco a morir m'invio;
sì, ma quel core è mio; (A Valentiniano, accennando Fulvia)
sì, ma tu cedi a me.
   Caro mio bene, addio.
Perdona a chi t'adora;
so che t'offesi allora
ch'io dubitai di te. (Parte con le guardie)
   Con le procelle in seno
sembri tranquillo il mar
e un zeffiro sereno
col placido spirar
   Ma se quel cor superbo
l'istesso ancor sarà,
vi lascio in libertà,
   Tergi le ingiuste lagrime;
dilegua il tuo martiro,
che s'io per te respiro,
tu regnerai per me.
   Di raddolcirti io spero
questo penoso affanno
col dono d'un impero,
col sangue d'un tiranno
che delle nostre ingiurie
punito ancor non è. (Parte)
   Ah! Non son io che parlo,
è il barbaro dolore
che mi divide il core,
che delirar mi fa.
   Non cura il ciel tiranno
l'affanno in cui mi vedo;
un fulmine gli chiedo
e un fulmine non ha. (Parte)
   Già risonar d'intorno
al Campidoglio io sento
di cento voci e cento
lo strepito guerrier.
   Che fo? Si vada e sia
stimolo all'alma mia
il debito d'amico,
di suddito il dover. (Parte)

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