Metrica: interrogazione
833 endecasillabi (recitativo) in Attilio Regolo R 
Sei tu, mia bella Attilia. Oh dei! Confusa
qui trovar non credei.
                                          Su queste soglie
ch'esca il console attendo. Io voglio almeno
farlo arrossir. Più di riguardi ormai
non è tempo, o Licinio. In lacci avvolto
geme in Africa il padre; un lustro è scorso;
nessun s'affanna a liberarlo; io sola
piango in Roma e rammento i casi sui.
Se taccio anch'io, chi parlerà per lui?
Non dir così; saresti ingiusta. E dove,
di Regolo il ritorno e che non creda
un acquisto leggier l'Africa doma,
se ha da costar tal cittadino a Roma?
Di me non parlo; è padre tuo; t'adoro;
lui duce appresi a trattar l'armi; e quanto
in me traluce ei m'inspirò.
                                                  Finora
però non veggo...
                                 E che potei privato
finor per lui? D'ambiziosa cura
ardor non fu che a proccurar m'indusse
la tribunizia potestà; cercai
l'istanze mie. Del popol tutto a nome
tribuno or chiederò...
                                         Serbisi questo
violento rimedio al caso estremo.
fral popolo e 'l Senato. È troppo, il sai,
della suprema autorità geloso
ciascun di loro. Or questo, or quel n'abusa;
e quel che chiede l'un l'altro ricusa.
V'è più placida via. So che a momenti
un orator s'attende. Ad ascoltarlo
di Bellona nel tempio; ivi proporre
il console potria.
                                Manlio! Ah rammenta
che del tuo genitore emulo antico
fu da' prim'anni. In lui fidarsi è vano;
è Manlio un suo rival.
                                         Manlio è un romano;
né armar vorrà la nimistà privata
col pubblico poter. Lascia ch'io parli;
udiam che dir saprà.
                                        Parlagli almeno,
parlagli altrove; e non soffrir che mista
qui fral volgo ti trovi.
                                        Anzi vogl'io
che in pubblico m'ascolti e mi risponda.
d'uno sguardo mi degni!
                                               In quest'istante
io son figlia, o Licinio, e non amante.
t'arresta e m'odi.
                                 E questo loco, Attilia,
parti degno di te?
                                   Non fu sintanto
che un padre invitto in libertà vantai;
per la figlia d'un servo è degno assai.
                         A che vengo! Ah fino a quando
con vergogna di Roma in vil servaggio
Regolo ha da languir? Scorrono i giorni,
gli anni giungono a lustri e non si pensa
ch'ei vive in servitù. Qual suo delitto
questo barbaro obblio? Forse l'amore
alla patria pospose? Il grande, il giusto,
l'incorrotto suo cor? L'illustre forse
sua povertà ne' sommi gradi? Ah come
può Regolo obbliar? Qual parte in Roma
non vi parla di lui? Le vie? Per quelle
ei passò trionfante. Il Foro? A noi
provvide leggi ivi dettò. Le mura
ove accorre il Senato? I suoi consigli
la pubblica salvezza. Entra ne' tempi,
ascendi, o Manlio, il Campidoglio e dimmi,
puniche, siciliane e tarentine?
ch'or precedono a te, questa che cingi
porpora consolar, Regolo ancora
ebbe altre volte intorno. Ed or si lascia
morir fra' ceppi? Ed or non ha per lui
che i pianti miei ma senza pro versati?
Oh padre! Oh Roma! Oh cittadini ingrati!
Giusto, Attilia, è il tuo duol ma non è giusta
l'accusa tua. Di Regolo la sorte
anche a noi fa pietà. Sappiam di lui
la barbara Cartago...
                                       Eh che Cartago
la barbara non è. Cartago opprime
un nemico crudel; Roma abbandona
un fido cittadin. Quella rammenta
quant'ei già l'oltraggiò; questa si scorda
quant'ei sudò per lei. Vendica l'una
i suoi sudori in lui; l'altra il punisce
perché d'allor le circondò la chioma.
La barbara or qual è? Cartago o Roma?
Ma che far si dovrebbe?
                                              Offra il Senato
all'africano ambasciador.
                                               Tu parli,
Attilia, come figlia; a me conviene
come console oprar. Se tal richiesta
fa d'uopo esaminar. Chi a le catene
la destra accostumò...
                                         Donde apprendesti
così rigidi sensi?
                                 Io n'ho sugli occhi
i domestici esempi.
                                      Eh di' che al padre
sempre avverso tu fosti.
                                             È colpa mia
s'ei vincer si lasciò? Se fra' nemici
rimase prigionier?
                                     Pria d'esser vinto
ei v'insegnò più volte...
                                            Attilia, ormai
il Senato è raccolto; a me non lice
qui trattenermi. Agli altri padri inspira
massime meno austere. Il mio rigore
ch'io son console in Roma e non sovrano.
da' consoli a sperar. Questo è nemico;
assente è l'altro. Al popolar soccorso
rivolgersi convien. Padre infelice,
la libertà, la vita tua dipende!
Attilia, Attilia. (Con fretta)
                             Onde l'affanno?
                                                            È giunto
l'africano orator.
                                Tanto trasporto
la novella non merta.
                                        Altra ne reco
ben più grande.
                               E qual è?
                                                   Regolo è seco.
t'ingannasti o m'inganni?
                                                 Io nol mirai
son fuor di me... Regolo è in Roma.
                                                                 Oh dio!
Che assalto di piacer! Guidami a lui.
Dov'è? Corriam...
                                  Non è ancor tempo. Insieme
con l'orator nemico attende adesso
che l'ammetta il Senato.
                                              Ove il vedesti?
d'ospizio proveder. Sento che giunge
l'orator di Cartago; ad incontrarlo
m'affretto al porto; un africano io credo
vedermi in faccia e il genitor mi vedo.
Che disse? Che dicesti?
                                             Ei su la ripa
era già, quand'io giunsi, e 'l Campidoglio,
stava fisso a mirar. Nel ravvisarlo
corsi gridando: «Ah caro padre!» e volli
la sua destra baciar. M'udì, si volse,
ritrasse il piede e in quel sembiante austero
con cui già fe' tremar l'Africa doma:
«Non son padri» mi disse «i servi in Roma».
Io replicar volea; ma se raccolto
chiedendo m'interruppe. Udillo e senza
parlar là volse i passi. Ad avvertirne
il console io volai. Dov'è? Non veggo
qui d'intorno i littori...
                                           Ei di Bellona
al tempio s'inviò.
                                  Servo ritorna
dunque Regolo a noi?
                                         Sì; ma di pace
so che reca proposte, e che da lui
dipende il suo destin.
                                         Chi sa se Roma
quelle proposte accetterà.
                                                Se vedi
tal dubbio non avrai. Di gioia insani
son tutti, Attilia. Al popolo che accorre
sono anguste le vie. L'un l'altro affretta;
questo a quello l'addita. Oh con quai nomi
molle osservai per tenerezza il ciglio!
Che spettacolo, Attilia, al cor d'un figlio!
Ah Licinio dov'è? Di lui si cerchi.
non divisa con lui la gioia mia.
Addio, Barce vezzosa.
                                         Odi. Non sai
dell'orator cartaginese il nome?
Sì; Amilcare s'appella.
                                           È forse il figlio
                      Appunto.
                                          (Ah l'idol mio!)
                                                                         Tu cangi
color! Perché? Fosse costui cagione
del tuo rigor con me?
                                         Signor, trovai
in Attilia ed in te che non m'avvidi
finor di mie catene; e troppo ingrata
sarei, se t'ingannassi. A te sincera
tutto il cor scoprirò. Sappi...
                                                    T'accheta.
la tua sincerità. Fra le dolcezze
di questo dì non mescoliam veleno;
se d'altri sei, vo' dubitarne almeno.
il mio ben rivedrò? L'unico, il primo
onde m'accesi? Ah! che farai, cor mio,
se al nome sol così mi balzi in petto?
l'africano orator. Dunque i nemici
braman la pace? (A Publio)
                                 O de' cattivi almeno
vogliono il cambio. A Regolo han commesso
d'ottenerlo da voi. Se nulla ottiene,
il rifiuto di Roma egli a Cartago
è costretto a tornar. Giurollo e vide
pria di partir del minacciato scempio
i funesti apparecchi. Ah non sia vero
un tanto cittadin...
                                    T'accheta; ei viene. (Il console, Publio e tutti i senatori vanno a sedere e rimane vuoto accanto al console il luogo altre volte occupato da Regolo. Passano Regolo ed Amilcare fra’ littori che tornano subito a chiudersi. Regolo entrato appena nel tempio s’arresta pensando)
(Regolo, a che t'arresti? È forse nuovo
(Penso qual ne partii, qual vi ritorno).
bramoso di depor l'armi temute
al Senato di Roma invia salute.
anche pace da lui, pace gl'invia.
Siedi ed esponi. (Amilcare siede) E tu l'antica sede,
Regolo, vieni ad occupar.
                                               Ma questi
                    I padri.
                                     E tu chi sei?
                                                              Conosci
E fral console e i padri un servo ha loco?
per te cui dee cento conquiste e cento.
Se Roma se ne scorda, io gliel rammento.
(Più rigida virtù chi vide mai?)
Né Publio sederà. (Sorge)
                                   Publio, che fai?
Compisco il mio dover. Sorger degg'io
dove il padre non siede.
                                             Ah tanto in Roma
son cambiati i costumi! Il rammentarsi
d'un privato dover, pria che tragitto
in Africa io facessi, era delitto.
            Siedi, Publio, e ad occupar quel loco
più degnamente attendi.
                                               Il mio rispetto
innanzi al padre è naturale istinto.
Il tuo padre morì, quando fu vinto.
Parla Amilcare ormai. (Publio siede)
                                           Cartago elesse
Regolo a farvi noto il suo desio.
Ciò ch'ei dirà dice Cartago ed io.
Dunque Regolo parli.
                                         Or ti rammenta (Piano a Regolo)
                    Io compirò quanto giurai. (Pensa)
                            (Numi di Roma, ah voi
inspirate eloquenza a' labbri suoi!)
a patto che sia suo quant'or possiede,
pace, o padri coscritti, a voi richiede.
Se pace non si vuol, brama che almeno
termini un cambio il doloroso esiglio.
Ricusar l'una e l'altro è il mio consiglio.
                  (Ahimè!)
                                      (Son di sasso).
                                                                   Io della pace
i danni a dimostrar non m'affatico;
se tanto la desia, teme il nemico.
frode per voi più perigliosa assai.
                 Io compirò quanto giurai. (Ad Amilcare)
(Numi! Il padre si perde).
                                                  Il cambio offerto
ma l'esempio è il peggior. L'onor di Roma,
la virtù militar, padri, è finita,
se ha speme il vil di libertà, di vita.
chi a Roma porterà l'orme sul tergo
della sferza servil? Chi l'armi ancora
vivo depose e per timor di morte
soffrir si elesse? Oh vituperio eterno!
basta Regolo sol.
                                Manlio, t'inganni.
Regolo è pur mortal. Sento ancor io
l'ingiurie dell'etade. Utile a Roma
già poco esser potrei. Molto a Cartago
ben lo saria la gioventù feroce
che per me rendereste. Ah sì gran fallo
da voi non si commetta. Ebbe il migliore
de' miei giorni la patria, abbia il nemico
l'inutil resto. Il vil trionfo ottenga
di vedermi spirar; ma vegga insieme
che di Regoli abbonda il suol romano.
(Che nuovo a me strano linguaggio è questo!)
L'util non già dell'opre nostre oggetto
ma l'onesto esser dee; né onesto a Roma
l'esser ingrata a un cittadin saria.
Vuol Roma essermi grata? Ecco la via.
m'han creduto sì vil che per timore
io venissi a tradirvi. Ah questo oltraggio
d'ogni strazio sofferto è più inumano.
Vendicatemi, o padri, io fui romano.
l'aquile prigioniere. Infin che oppressa
l'emula sia, non deponete il brando.
legga il terror dell'ire vostre in fronte
a' carnefici miei, che lieto io mora
nell'osservar fra' miei respiri estremi
come al nome di Roma Africa tremi.
gli sdegni miei).
                                (Nessun risponde? Oh dio!
dubbio sì grande. A respirar dal nostro
giusto stupor spazio bisogna. In breve
tu, Amilcare, saprai. Noi, padri, andiamo
pria di tutto a implorar. (S’alza e seco tutti)
                                              V'è dubbio ancora?
è il non piegar del tuo consiglio al peso,
è il perder chi sa dar sì gran consiglio.
Regolo le promesse?
                                       Io vi promisi
di ritornar; l'eseguirò.
                                          Ma...
                                                      Padre! (Con impazienza)
lode agli dei, libero ancora.
                                                   Il cambio
dunque si ricusò?
                                   Publio, ne guida
ad Amilcare e a me.
                                      Né tu verrai
a' patri lari? Al tuo ricetto antico?
Non entra in Roma un messaggier nemico.
legge non è per te.
                                   Saria tiranna,
se non fosse per tutti.
                                         Io voglio almeno
seguirti ovunque andrai.
                                               No; chiede il tempo,
Attilia, altro pensier che molli affetti
di figlia e genitor.
                                   Da quel che fosti,
padre, ah perché così diverso adesso?
La mia sorte è diversa; io son l'istesso.
Ah di nuovo io ti perdo! Il cambio offerto
Regolo dissuade.
                                 Oh stelle!
                                                     Addio.
Publio seguir degg'io. Mia vita, oh quanto,
quanto ho da dirti!
                                     E nulla dici intanto.
Chi creduto l'avrebbe! Il padre istesso
congiura a' danni suoi.
                                           Già che il Senato
non decise finor, molto ti resta,
Attilia, onde sperar. Corri, t'adopra,
si raccolgano i padri. Adesso è il tempo
di porre in uso e l'eloquenza e l'arte.
or la fé degli amici, or de' Romani
giova implorar l'aita in ogni loco.
Tutto farò; ma quel ch'io spero è poco.
sarebbe il mio, se Amilcare dovesse
senza me ritornar! Solo in pensarlo
mi sento... Ah no; speriam più tosto. Avremo
sempre tempo a penar. Non è prudenza
l'arte crudel di presagirsi i mali.
dell'onor mio, del pubblico riposo
e in Senato non sei?
                                       Raccolto ancora,
                           Va', non tardar; sostieni
fra i padri il voto mio. Mostrati degno
dell'origine tua.
                               Come! E m'imponi
io stesso il danno tuo?
                                          Non è mio danno
quel che giova alla patria.
                                                Ah di te stesso
signore abbi pietà.
                                    Publio, tu stimi
dunque un furore il mio? Credi ch'io solo
fra ciò che vive odii me stesso? Oh quanto
bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo
trovo sol nella colpa e quello io trovo
nella sola virtù. Colpa sarebbe
ricuperar la libertà smarrita;
onde è mio mal la libertà, la vita.
è della patria assicurar la sorte;
ond'è mio ben la servitù, la morte.
Pur la patria non è...
                                       La patria è un tutto
di cui siam parti. Al cittadino è fallo
separato da lei. L'utile o il danno,
ch'ei conoscer dee solo, è ciò che giova
o nuoce alla sua patria a cui di tutto
è debitor. Quando i sudori e il sangue
sparge per lei, nulla del proprio ei dona;
rende sol ciò che n'ebbe. Essa il produsse,
l'educò, lo nudrì; con le sue leggi
dagl'insulti domestici il difende,
dagli esterni con l'armi. Ella gli presta
nome, grado ed onor; ne premia il merto;
ne vendica le offese; e madre amante
la sua felicità, per quanto lice
al destin de' mortali esser felice.
il peso lor. Chi ne ricusa il peso
rinunci al benefizio; a far si vada
mendico abitatore; e là di poche
misere ghiande e d'un covil contento
viva libero e solo a suo talento.
Adoro i detti tuoi. L'alma convinci
ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti
la natura repugna. Alfin son figlio,
non lo posso obbliar.
                                       Scusa infelice
per chi nacque romano. Erano padri
Bruto, Manlio, Virginio...
                                               È ver; ma questa
sol fra' padri restò. Figlio non vanta
Roma finor che a proccurar giungesse
Dunque aspira all'onor del primo esempio.
          Deh...
                        Non più. Della mia sorte attendo
la notizia da te.
                              Troppo pretendi,
troppo, o signor.
                                Mi vuoi straniero o padre?
l'util di Roma al mio; se padre, il cenno
rispetta e parti.
                               Ah se mirar potessi
i moti del cor mio, rigido meno
forse con me saresti.
                                       Or dal tuo core
prove io vo' di costanza e non d'amore.
Il gran punto s'appressa ed io pavento
che vacillino i padri. Ah voi di Roma
deità protettrici, a lor più degni
                              A custodir l'ingresso
rimangano i littori; e alcun non osi
                           (Manlio! A che viene?)
                                                                       Ah lascia
che al sen ti stringa, invitto eroe.
                                                             Che tenti!
Regolo, adesso. Un uom son io che adora
la tua virtù, la tua costanza, un grande
emulo tuo che a dichiarar si viene
vinto da te, che confessando ingiusto
chiede l'onor di diventarti amico.
solito stil. Più le abbattute piante
non urta il vento o le solleva. Io deggio
alla mia servitù.
                                Sì, questa appieno
qual tu sei mi scoperse; e mai sì grande,
com'or fra' ceppi, io non ti vidi. A Roma
spesso tornasti; or vincitor ritorni
di te, della fortuna. I lauri tuoi
mossero invidia in me; le tue catene
Regolo mi parea, ma un nume adesso.
Basta, basta, signor. La più severa
misurata virtù tentan le lodi
in un labbro sì degno. Io ti son grato
che d'illustrar con l'amor tuo ti piaccia
gli ultimi giorni miei.
                                          Gli ultimi giorni?
lungamente alla patria; e affinché sia
in tuo favor l'offerto cambio ammesso,
tutto in uso porrò.
                                   Così cominci, (Turbandosi)
Manlio, ad essermi amico? E che faresti,
se ancor m'odiassi? In questa guisa il frutto
del mio rossor tu mi defraudi. A Roma
io non venni a mostrar le mie catene
per destarla a pietà; venni a salvarla
che accettar non si dee. Se non puoi darmi
altri pegni d'amor, torna ad odiarmi.
produrria la tua morte.
                                            E questo nome
nell'orecchie di Manlio? Io non imparo
oggi che son mortale. Altro il nemico
non mi torrà che quel che tormi in breve
dee la natura; e volontario dono
sarà così quel che saria fra poco
necessario tributo. Il mondo apprenda
ch'io vissi sol per la mia patria; e quando
resi almen la mia morte utile a lei.
Oh detti! Oh sensi! Oh fortunato suolo
che tai figli produci! E chi potrebbe
non amarti, signor?
                                      Se amar mi vuoi,
amami da romano. Eccoti i patti
della nostra amistà. Facciamo entrambi
un sacrifizio a Roma, io della vita,
tu dell'amico. È ben ragion che costi
qualche pena anche a te. Va'; ma prometti
che de' consigli miei tu nel Senato
ti farai difensore. A questa legge
sola di Manlio io l'amicizia accetto.
Che rispondi signor?
                                        Sì; lo prometto. (Pensa prima di rispondere)
in Manlio amico io riconosco un dono.
Ah perché fra que' ceppi anch'io non sono!
Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti
forse saranno i padri. Alla tua fede
la mia pace abbandono e l'onor mio.
Addio, gloria del Tebro.
                                             Amico, addio. (Abbracciandosi)
A respirar comincio; i miei disegni
il fausto ciel seconda.
                                        Alfin ritorno (Molto lieto)
con più contento a rivederti.
                                                     E donde
tanta gioia, o Licinio?
                                         Ho il cor ripieno
di felici speranze. Infin ad ora
                         Per me!
                                          Sì. Mi credesti
forse ingrato così ch'io mi scordassi
gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah tutto
mi rammento, signor. Tu sol mi fosti
duce, maestro e padre. I primi passi
per le strade d'onor; tu mi rendesti...
Alfine in mio favor di', che facesti? (Impaziente)
e la tua libertà.
                              Come? (Turbato)
                                              All'ingresso
del tempio, ove il Senato or si raccoglie,
attesi i padri; e ad uno ad un gli trassi
nel desio di salvarti.
                                       (Oh dei, che sento!)
              Solo io non fui. Non si defraudi
la lode al merto. Io feci assai ma fece
Attilia più di me.
                                  Chi?
                                              Attilia. In Roma
figlia non v'è d'un genitor più amante.
Quanti affetti destò! Come compose
il dolor col decoro! In quanti modi
rimproveri mischiò, preghiere e lodi!
agli assalti d'Attilia? Eccola; osserva
la novella speranza.
                                     Amato padre,
ancor venirmi innanzi? Ah non contai
te fin ad or fra' miei nemici.
                                                     Io padre,
                             E tal non è chi folle (Come sopra)
s'oppone a' miei consigli?
                                                 Ah di giovarti
dunque il desio d'inimicizia è prova?
Che sai tu quel che nuoce o quel che giova? (Con isdegno)
chi a parte ti chiamò? Della mia sorte
chi ti fe' protettrice? Onde...
                                                     Ah signore,
                  Parla Licinio? Assai tacendo (Come sopra)
meglio si difendea; pareva almeno
pentimento il silenzio. Eterni dei!
Una figlia!... Un roman!
                                             Perché son figlia...
Perché roman son io, credei che oppormi
più sfortunata donna! Amare un padre,
affannarsi a suo pro, mostrar per lui
di tenera pietade il cor trafitto
saria merito ad altri; è a me delitto.
No; consolati, Attilia, e non pentirti
dell'opra pietosa. Altro richiede
di Regolo il dover. Se gloria è a lui
della vita il disprezzo, a noi sarebbe
empietà non salvarlo. Alfin vedrai
che grato ei ci sarà. Non ti spaventi
lo sdegno suo; spesso l'infermo accusa
quella medica man che lo risana.
mi trafiggono il cor; non ho costanza
per soffrir l'ire sue.
                                     Ma di', vorresti
pria d'un tal genitor vederti priva?
Ah questo no; mi sia sdegnato e viva.
begli occhi, a serenar. Se veggo, oh dio!
mestizia in voi, perdo coraggio anch'io.
Ah che purtroppo è ver! Non han misura
i favori e gli sdegni. O de' suoi doni
o affligge un cor fin che nol vegga oppresso.
son io dell'ire sue. Mi veggo intorno
e chi sa quanti strali avranno in seno!
Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo
moto incognito a te? Sfidasti ardito
le tempeste del mar, l'ire di Marte,
ed or tremando il tuo destino attendi?
Ah n'hai ragion. Mai non si vide ancora
la gloria mia. Ma questa gloria, oh dei!
un affetto tiranno? Al par d'ogn'altro
domar non si dovrebbe? Ah no. De' vili
questo è il linguaggio. Inutilmente nacque
chi sol vive a sé stesso; e sol da questo
nobile affetto ad obbliar s'impara
sé per altrui. Quanto ha di ben la terra
alla gloria si dee. Vendica questa
l'umanità del vergognoso stato
in cui saria senza il desio d'onore;
alla morte il terror; dilata i regni,
le città custodisce; alletta, aduna
seguaci alla virtù; cangia in soavi
e rende l'uomo imitator de' numi.
Per questa... Ahimè! Publio ritorna e parmi
che timido s'avanzi. E ben che rechi?
Qual è la sorte mia?
                                      Signor... (Che pena
per un figlio è mai questa!)
                                                    E taci?
                                                                   Oh dei!
Esser muto vorrei.
                                    Parla.
                                                 Ogni offerta
il Senato ricusa.
                               Ah dunque ha vinto
il fortunato alfin genio romano!
Grazie agli dei, non ho vissuto invano.
Amilcare si cerchi. Altro non resta
la grand'opra compii, partir conviene.
                             Ed infelice appelli
alla patria giovar?
                                   La patria adoro,
piango i tuoi lacci.
                                   È servitù la vita;
ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole
la sorte di chi nasce e non la mia.
l'empio furor ti priverà di vita.
E la mia servitù sarà finita.
Addio. Non mi seguir.
                                          Da me ricusi
gli ultimi ancor pietosi uffizi?
                                                        Io voglio
altro da te. Mentre a partir m'affretto,
la sconsolata Attilia. Il suo dolore
funesterebbe il mio trionfo. Assai
tenera fu per me. Se forse eccede,
compatiscila, o Publio. Alfin da lei
pretender non si può. Tu la consiglia;
la reggi, la consola e seco adempi
ogni uffizio di padre. A te la figlia,
te confido a te stesso; e spero... Ah veggo
che indebolir ti vuoi. Maggior costanza
in te credei. L'avrò creduto invano?
Publio, ah no; sei mio figlio e sei romano.
Ah sì, Publio, coraggio. Il passo è forte
ma vincerti convien. Lo chiede il sangue
che hai nelle vene. Il grand'esempio il chiede
che sugli occhi ti sta. Cedesti a' primi
impeti di natura; or meglio eleggi;
il padre imita e l'error tuo correggi.
Ed è vero, o german? (Con ispavento)
                                          Publio, ed è vero? (Con ispavento)
                             Come!
                                            Che dici?
Dunque ognun mi tradì?
                                               Dunque...
                                                                    Or non giova...
Amilcare, pietà. (Vedendolo da lontano)
                                Licinio, aiuto. (Come sopra)
Più speranza non v'è. (A Barce)
                                          Tutto è perduto. (Ad Attilia)
almen seco partir.
                                   Ferma; l'eccesso
del tuo dolor l'offenderebbe.
                                                     E speri
                                 Spero che Attilia
torni alfine in sé stessa e si rammenti
Sol che son figlia io mi rammento adesso.
                    Non sperarlo.
                                               Ah parte intanto
                    Non dubitar ch'ei parta,
finché Amilcare è qui.
                                          Chi mi consiglia?
Chi mi soccorre? Amilcare?
                                                    Io mi perdo
fra l'ira e lo stupor.
                                     Licinio?
                                                       Ancora
respirar non poss'io.
                                       Publio?
                                                        Ah germana,
più valor, più costanza. Il fato avverso
come si soffra il genitor ci addita.
Non è degno di lui chi non l'imita.
E tu parli così! Tu che dovresti
i miei trasporti accompagnar gemendo!
Io non t'intendo, o Publio.
                                                 Ed io l'intendo.
Barce è la fiamma sua. Barce non parte,
se Regolo non resta. Ecco la vera
(Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!)
non accettasse il cambio, ei pose in opra
Il dubbio inver d'un africano è degno.
della sorte di Barce?
                                       Il so; l'ottenne
la madre tua; questa cedendo al fato,
signor di lei tu rimanesti.
                                                Or odi
qual uso io fo del mio dominio. Amai
ma non quanto l'onor. So che un tuo pari
creder nol può; ma toglierò ben io
ogni pretesto alla calunnia altrui.
Barce, libera sei; parti con lui.
                                 D'una virtù sì rara...
Come s'ama fra noi, barbaro, impara. (Parte)
Vedi il crudel come mi lascia? (A Licinio che non l’ode)
                                                         Udisti
come Publio parlò? (Ad Amilcare come sopra)
                                      Tu non rispondi! (A Licinio)
Addio! Barce; m'attendi. (Risoluto partendo)
                                                Attilia, addio. (Come sopra)
Regolo a conservar. (A Barce)
                                      Ma per qual via? (A Licinio)
diasi estremo rimedio.
                                            Abbia rivali (A Barce)
nella virtù questo romano orgoglio.
Esser teco vogl'io. (A Licinio)
                                   Seguirti io voglio. (Ad Amilcare)
No; rimaner tu dei. (A Barce)
                                       Né vuoi spiegarti? (Ad Amilcare)
Né vuoi ch'io sappia almen... (A Licinio)
                                                       Tutto fra poco (Ad Attilia)
               Fidati a me. (A Barce)
                                        Regolo in Roma
Faccia pompa d'eroi l'Africa ancora. (S’incammina e poi si
Che possiamo sperar?
                                          Non so. Tumulti
certo a destar corre Licinio; e questi
alla patria ed a lui, senza che il padre
                            Amilcare sorpreso
dal grand'atto di Publio, e punto insieme
da' rimproveri suoi, men generoso
esser non vuol di lui. Chi sa che tenta
e a qual rischio s'espone?
                                                Il mio Licinio
deh secondate, o dei!
                                        Lo sposo mio,
                               Io non ho fibra in seno
non dobbiamo avvilirci. Alfin più chiaro
è adesso il ciel di quel che fu; si vede
Ah Barce, è ver; ma non mi dà coraggio.
ardir vo consigliando e tremo io stessa.
quando meno sperai. La tema incerta
solo allor m'affliggea d'un mal futuro;
or di perder pavento un ben sicuro.
Amilcare il voler? Dov'è? Si trovi;
partir convien. Qui che sperar per lui,
per me non v'è più che bramar. Diventa
colpa ad entrambi or la dimora. Ah vieni, (Vedendo venir Manlio)
vieni, amico, al mio seno. Era in periglio
senza te la mia gloria; i ceppi miei
per te conservo; a te si deve il frutto
della mia schiavitù.
                                      Sì; ma tu parti.
Sì; ma noi ti perdiam.
                                           Mi perdereste,
s'io non partissi.
                                Ah perché mai sì tardi
incomincio ad amarti! Altri finora,
pegni dell'amor mio, se non funesti.
da un vero amico io non potea; ma pure
se il generoso Manlio altri vuol darne,
altri ne chiederò.
                                 Parla.
                                              Compito
ogni dover di cittadino, alfine
mi sovvien che son padre. Io lascio in Roma
due figli, il sai, Publio ed Attilia; e questi
son del mio cor, dopo la patria, il primo,
il più tenero affetto. In lor traluce
indole non volgar; ma sono ancora
piante immature e di cultor prudente
abbisognano entrambi. Il ciel non volle
che l'opera io compissi. Ah tu ne prendi
la perdita compensa; al tuo bel core
la gloria il padre e l'assistenza i figli.
Sì, tel prometto. I preziosi germi
custodirò geloso. Avranno un padre,
se non degno così, tenero almeno
al par di te. Della virtù romana
io lor le tracce additerò. Né molto
sudor mi costerà. Basta a quell'alme
di bel desio già per natura accese
l'istoria udir delle paterne imprese.
Roma tutta è in tumulto. Il popol freme;
non si vuol che tu parta.
                                             E sarà vero
possa Roma bramar?
                                         No; cambio o pace
Roma non vuol; vuol che tu resti.
                                                             Io! Come?
E la promessa? E il giuramento?
                                                             Ognuno
                                Dunque un delitto
scusa è dell'altro. E chi sarà più reo,
se l'esempio è discolpa?
                                             Or si raduna
degli auguri il collegio. Ivi deciso
il gran dubbio esser deve.
                                                 Uopo di questo
oracolo io non ho. So che promisi;
Roma deliberar. Del mio ritorno
a me tocca il pensier. Pubblico quello,
questo è privato affar. Non son qual fui;
né Roma ha dritto alcun sui servi altrui.
                                No; se l'attendo, approvo
la loro autorità. Custodi, al porto. (Agli africani)
Amico, addio. (A Manlio partendo)
                             No, Regolo; se vai
fra la plebe commossa, a viva forza
può trattenerti; e tu, se ciò succede,
tutta Roma fai rea di poca fede.
Dunque mancar degg'io?...
                                                   No; andrai; ma lascia
prima a calmar. Ne sederà l'ardore
la consolare autorità.
                                        Rimango,
Manlio, su la tua fé. Ma...
                                               Basta; intendo.
e conosco il tuo cor. Fidati al mio.
tanto or si suda a conservar la fede?
Dunque... Ah Publio! E tu resti? E sì tranquillo
d'assistermi l'onor? Corri; proccura
tu ancor la mia partenza. Esser vorrei
debitore ad un figlio.
                                        Ah padre amato,
                              Che? Sospiri! Un segno
quel sospiro saria d'animo oppresso!
                            Senza che parli, intendo
già le querele tue. Non ti sgomenti
il moto popolar; Regolo in Roma
vivo non resterà.
                                 Non so di quali
moti mi vai parlando. Io querelarmi
teco non voglio. A sostenerti io venni,
che vi sono alme grandi anche fra noi.
d'inutili contese. I tuoi raccogli,
No. Pria m'odi e rispondi.
                                                 (Oh sofferenza!)
L'esser grato è dover. Ma già sì poco
ch'oggi è gloria il compirlo.
                                                   E se il compirlo
costasse un gran periglio?
                                                 Ha il merto allora
d'un'illustre virtù.
                                   Dunque non puoi
questo merto negarmi. Odi. Mi rende,
la mia Barce il tuo figlio e pur l'adora.
vengo il padre a salvargli e pur m'espongo
di Cartago al furor.
                                     Tu vuoi salvarmi!
agio a fuggir. Questi custodi ad arte
allontanar farò. Tu cauto in Roma
che senza te con simulato sdegno
Ti sorprende l'offerta.
                                          Assai.
                                                        L'avresti
                                 No.
                                           Pur la sorte
non ho d'esser roman.
                                          Si vede.
                                                           Andate,
del buon voler; ma verrò teco.
                                                        E sprezzi
                          No; ti compiango. Ignori
che sia virtù. Mostrar virtù pretendi
e me, la patria tua, te stesso offendi.
della mia libertà? Servo son io
di Cartago o di te?
                                    Non è tuo peso
l'esaminar se il benefizio...
                                                  È grande
il benefizio inver! Rendermi reo,
profugo, mentitor...
                                      Ma qui si tratta
del viver tuo. Sai che supplizi atroci
Cartago t'apprestò? Sai quale scempio
là si farà di te?
                             Ma tu conosci,
Sai che vivon d'onor? Che questo solo
è sprone all'opre lor, misura, oggetto?
qui s'impara a morir; qui si deride,
pur che gloria produca, ogni tormento;
e la sola viltà qui fa spavento.
belle ad udir. Ma inopportuno è meco
quel fastoso linguaggio. Io so che a tutti
la vita è cara e che tu stesso...
                                                      Ah troppo
di mia pazienza abusi. I legni appresta;
compisci il tuo dover, barbaro, e taci.
E Manlio... Ahimè! Che rechi mai sì lieta,
sì frettolosa, Attilia?
                                       Il nostro fato
già dipende da te; già cambio o pace,
Roma non vuol; ma rimaner tu puoi.
Sì; col rossor...
                             No; su tal punto il sacro
Senato pronunciò. L'arbitro sei
di partir, di restar. Giurasti in ceppi
chi libero non è.
                                Libero è sempre
chi sa morir. La sua viltà confessa
voglio partir perché giurai.
                                                   Ma invano,
                              E chi potrà vietarlo?
Tutto il popolo, o padre. È affatto ormai
incapace di fren. Per impedirti
il passaggio alle navi ognun s'affretta
precipitando al porto; e son di Roma
già l'altre vie deserte.
                                         E Manlio?
                                                              È il solo
al voto universal. Prega, minaccia,
ma tutto inutilmente. Alcun non l'ode,
non l'ubbidisce alcun. Cresce a momenti
la furia popolar. Già su le destre
treman le scuri; e non ritrova ormai
esecutori il consolare impero.
Attilia, addio. Publio, mi siegui. (In atto di partire)
                                                            E dove?
A soccorrer l'amico, il suo delitto
a rinfacciare a Roma, a conservarmi
a partire o a spirar su queste arene. (Partendo)
Ah padre! Ah no! Se tu mi lasci... (Piangendo)
                                                              Attilia, (Serio ma senza sdegno)
al sesso ed all'età finor donai.
Basta; si pianse assai; per involarmi
non congiuri con Roma anche il tuo pianto.
Ah tal pena è per me... (Come sopra)
                                            Per te gran pena
è il perdermi, lo so. Ma tanto costa
l'onor d'esser romana.
                                          Ogn'altra prova
                         E qual? Co' tuoi consigli andrai
forse fra i padri a regolar di Roma
in Senato il destin? Con l'elmo in fronte
forse i nemici a debellar pugnando
fra l'armi suderai? Qualche disastro
se a soffrir per la patria atta non sei
senza viltà, di', che farai per lei?
È difficil virtù. Ma Attilia alfine
è mia figlia e l'avrà. (Partendo)
                                       Sì, quanto io possa,
gran genitor, t'imiterò. Ma... oh dio!
io perdei l'amor tuo.
                                       No, figlia, io t'amo;
io sdegnato non son. Prendine in pegno
questo amplesso da me. Ma questo amplesso
costanza, onor, non debolezza inspiri.
Ah sei padre, mi lasci e non sospiri!
Su costanza, o mio cor. Deboli affetti,
sgombrate da quest'alma; inaridite
lagrime imbelli. Assai si pianse; assai
si palpitò. La mia virtù natia
il ramo sol di sì gran pianta indegno.
Attilia, è dunque ver? Dunque a dispetto
degli auguri, di noi, del mondo intero
Regolo vuol partir?
                                     Sì. (Con fermezza)
                                             Ma che insano
                               Come del padre approvi
l'ostinato pensier?
                                    Del padre adoro
la costante virtù.
                                Virtù che a' ceppi,
che all'ire altrui, che a vergognosa morte
certamente dovrà...
                                     Taci. Quei ceppi, (S’intenerisce di nuovo)
quell'ire, quel morir del padre mio
                          E tu n'esulti?
                                                     (Oh dio!) (Piange)
                             Non può capir chi nacque
in barbaro terren per sua sventura
                              E perché piangi intanto?
Che strane idee questa produce in Roma
avidità di lode! Invidia i ceppi
Manlio del suo rival! Regolo abborre
la pubblica pietà! La figlia esulta
nello scempio del padre! E Publio... Ah questo
è caso inver che ogni credenza eccede.
E Publio ebro d'onor m'ama e mi cede!
                                 Ed il Senato ed io
non siam parte di Roma?
                                                Il popol tutto
                          Non la più sana.
                                                          Almeno
la men crudel. Noi conservar vogliamo
pieni di gratitudine e d'amore
                               E noi l'onore.
a garrir teco. Olà; libero il varco
lasci ciascuno. (Al popolo)
                             Olà; nessun si parta. (Al medesimo)
                           Io lo vieto.
                                                 Osa Licinio
al console d'opporsi?
                                        Osa al tribuno
                                   Or si vedrà. Littori,
difendete, o Romani. (Al popolo che si mette in difesa)
                                         Oh dei! Con l'armi
si resiste al mio cenno? In questa guisa
                       La maestà in Roma
nel popolo risiede; e tu l'oltraggi
Lasciate che l'inganno io manifesti.
                          Ah voi...
                                            Regolo resti.
Regolo resti! Ed io l'ascolto! Ed io
creder deggio a me stesso! Una perfidia
Si vuol da me? Quai popoli or produce
questo terren? Sì vergognosi voti
de' Bruti, de' Fabrizi e de' Camilli?
Regolo resti! Ah per qual colpa e quando
meritai l'odio vostro?
                                         È il nostro amore,
franger le tue catene.
                                        E senza queste
Regolo che sarà? Queste mi fanno
lo splendor della patria. E più non sono,
che uno schiavo spergiuro e fuggitivo.
giurasti in ceppi; e gli auguri...
                                                          Eh lasciamo
questi d'infedeltà pretesti indegni.
Roma a' mortali a serbar fede insegni.
se perde il padre suo?
                                          Roma rammenti
che il suo padre è mortal, che alfin vacilla
anch'ei sotto l'acciar, che sente alfine
anch'ei le vene inaridir, che ormai
né sangue né sudor, che non gli resta
che finir da romano. Ah m'apre il cielo
una splendida via; de' giorni miei
troncar con lode; e mi volete infame!
No; possibil non è. De' miei Romani
conosco il cor. Da Regolo diverso
pensar non può chi respirò nascendo
l'aure del Campidoglio. Ognun di voi
so che m'invidia, e che fra' moti ancora
di quel che l'ingannò tenero eccesso,
fa voti al ciel di poter far l'istesso.
Ah non più debolezza. A terra, a terra
quell'armi inopportune; al mio trionfo
o amici, o figli, o cittadini. Amico
esorto cittadin; padre comando.
(Oh dio! Ciascun già l'ubbidisce).
                                                               (Oh dio!
Ecco sgombro il sentier.
                                             Grazie vi rendo,
propizi dei. Libero è il passo. Ascendi,
(Alfin comincio ad invidiar costui). (Sale su la nave)
Romani, addio. Siano i congedi estremi
degni di noi. Lode agli dei, vi lascio
e vi lascio romani. Ah conservate
illibato il gran nome; e voi sarete
gli arbitri della terra; e il mondo intero
roman diventerà. Numi custodi
di quest'almo terren, dee protettrici
della stirpe d'Enea, confido a voi
questo popol d'eroi; sian vostra cura
questo suol, questi tetti e queste mura.
la costanza, la fé, la gloria alberghi,
la giustizia, il valore. E se giammai
alcun astro maligno influssi rei,
ecco Regolo, o dei. Regolo solo
sia la vittima vostra e si consumi
tutta l'ira del ciel sul capo mio
ma Roma illesa... Ah qui si piange! Addio.

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