Didone abbandonata, Parigi, Hérissant, 1780

 SCENA IX
 
 SELENE ed ENEA
 
 ENEA
 Allorché Araspe a provocar mi venne,
795del suo signor sostenne
 le ragioni con me. La sua virtude
 se condannar pretendi,
 troppo quel core ingiustamente offendi.
 SELENE
 Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
800di favellar di lui. Brama Didone
 teco parlar.
 ENEA
                        Poc'anzi
 dal suo real soggiorno io trassi il piede.
 Se di nuovo mi chiede
 ch'io resti in questa arena,
805invan s'accrescerà la nostra pena.
 SELENE
 Come fra tanti affanni,
 cor mio, chi t'ama abbandonar potrai?
 ENEA
 Selene, a me cor mio?
 SELENE
 È Didone che parla e non son io.
 ENEA
810Se per la tua germana
 così pietosa sei,
 non curar più di me, ritorna a lei.
 Dille che si consoli,
 che ceda al fato e rassereni il ciglio.
 SELENE
815Ah no! Cangia, mio ben, cangia consiglio.
 ENEA
 Tu mi chiami tuo bene?
 SELENE
 È Didone che parla e non Selene.
 Vieni e l'ascolta. È l'unico conforto
 ch'ella implora da te.
 ENEA
                                         D'un core amante
820quest'è il solito inganno;
 va cercando conforto e trova affanno.
 
    Tormento il più crudele
 d'ogni crudel tormento
 è il barbaro momento
825che in due divide un cor.
 
    È affanno sì tiranno
 che un'alma nol sostiene.
 Ah! Nol provar, Selene,
 se nol provasti ancor. (Parte)