Didone abbandonata, Parigi, Hérissant, 1780

 SCENA ULTIMA
 
 DIDONE
 
 DIDONE
 Ah che dissi, infelice! A qual eccesso
 mi trasse il mio furore?
 Oh dio, cresce l'orrore! Ovunque io miro,
1360mi vien la morte e lo spavento in faccia;
 trema la reggia e di cader minaccia.
 Selene, Osmida! Ah! Tutti,
 tutti cedeste alla mia sorte infida;
 non v'è chi mi soccorra o chi m'uccida.
 
1365   Vado... Ma dove? Oh dio!
 Resto... Ma poi... che fo?
 Dunque morir dovrò
 senza trovar pietà?
 
 E v'è tanta viltà nel petto mio?
1370No no, si mora; e l'infedele Enea
 abbia nel mio destino
 un augurio funesto al suo cammino.
 Precipiti Cartago,
 arda la reggia; e sia
1375il cenere di lei la tomba mia. (Dicendo l’ultime parole corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia; e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo che si sollevano alla sua caduta. Nel tempo medesimo su l’ultimo orizzonte comincia a gonfiarsi il mare e ad avanzarsi lentamente verso la reggia, tutto adombrato al di sopra da dense nuvole e secondato dal tumulto di strepitosa sinfonia. Nell’avvicinarsi all’incendio, a proporzione della maggior resistenza del fuoco, va crescendo la violenza delle acque. Il furioso alternar dell’onde, il frangersi ed il biancheggiar di quelle nell’incontro delle opposte ruine, lo spesso fragor de’ tuoni, l’interrotto lume de’ lampi e quel continuo muggito marino, che suole accompagnar le tempeste, rappresentano l’ostinato contrasto dei due nemici elementi. Trionfando finalmente per tutto sul fuoco estinto le acque vincitrici, si rasserena improvvisamente il cielo, si dileguano le nubi, si cangia l’orrida in lieta sinfonia; e dal seno dell’onde già placate e tranquille sorge la ricca e luminosa reggia di Nettuno. Nel mezzo di quella assiso nella sua lucida conca, tirata da mostri marini e circondata da festive schiere di nereidi, di sirene e di tritoni, comparisce il nume che appoggiato al gran tridente parla nel seguente tenore)