Attilio Regolo, Torino, Reale, 1757

 SCENA V
 
 ATTILIA e LICINIO
 
 ATTILIA
660Ma di'; credi, o Licinio,
 che mai di me nascesse
 più sfortunata donna! Amare un padre,
 affannarsi a suo pro, mostrar per lui
 di tenera pietade il cor trafitto
665saria merito ad altri; è a me delitto.
 LICINIO
 No; consolati, Attilia, e non pentirti
 dell'opra pietosa. Altro richiede
 il dover nostro ed altro
 di Regolo il dover. Se gloria è a lui
670della vita il disprezzo, a noi sarebbe
 empietà non salvarlo. Alfin vedrai
 che grato ei ci sarà. Non ti spaventi
 lo sdegno suo; spesso l'infermo accusa
 di crudel, d'inumana
675quella medica man che lo risana.
 ATTILIA
 Que' rimproveri acerbi
 mi trafiggono il cor; non ho costanza
 per soffrir l'ire sue.
 LICINIO
                                      Ma di', vorresti
 pria d'un tal genitor vederti priva?
 ATTILIA
680Ah questo no; mi sia sdegnato e viva.
 LICINIO
 Vivrà; cessi quel pianto.
 Tornatevi di nuovo,
 begli occhi, a serenar. Se veggo, oh dio!
 mestizia in voi, perdo coraggio anch'io.
 
685   Da voi, cari lumi,
 dipende il mio stato;
 voi siete i miei numi,
 voi siete il mio fato;
 a vostro talento
690mi sento cangiar.
 
    Ardir m'inspirate,
 se lieti splendete;
 se torbidi siete,
 mi fate tremar. (Parte)