Catone in Utica, Roma, Bernabò, 1728

 SCENA XIII
 
 EMILIA e detti
 
 EMILIA
 In mezzo al mio dolore apparte anch'io
 son de' vostri contenti illustri sposi.
 Ecco acquista in Arbace
 il suo vindice Roma e cresceranno
575generosi nemici al mio tiranno.
 ARBACE
 Riserba ad altro tempo
 gli auguri Emilia, è ancor sospeso il nodo.
 EMILIA
 Si cangiò di pensiero
 Catone o Marzia?
 ARBACE
                                   Eh non ha Marzia un core
580tanto crudele, ella per me sospira
 tutta costanza e fede,
 da' sguardi suoi, dal suo parlar si vede.
 EMILIA
 Dunque il padre mancò.
 ARBACE
                                               Né pur.
 EMILIA
                                                                Chi è mai
 cagion di tanto indugio?
 MARZIA
                                               Arbace il chiede.
 EMILIA
585Tu prence?
 ARBACE
                        Io sì.
 EMILIA
                                    Perché?
 ARBACE
                                                     Perché desio
 maggior prova d'amor. Perché ho diletto
 di vederla penar.
 EMILIA
                                  E Marzia il soffre?
 MARZIA
 Che posso far? Di chi ben ama è questa
 la dura legge.
 EMILIA
                            Io non l'intendo e parmi
590il vostro amore inusitato e nuovo.
 ARBACE
 Anch'io poco l'intendo e pur lo provo.
 
    È in ogni core
 diverso amore.
 Chi pena ed ama
595senza speranza;
 dell'incostanza
 chi si compiace;
 questo vuol guerra,
 quello vuol pace,
600v'è fin chi brama
 la crudeltà.
 
    Fra questi miseri
 se vivo anch'io,
 ah non deridere
605l'affanno mio,
 che forse merito
 la tua pietà. (Parte)