Catone in Utica, Parigi, Quillau, 1755

 SCENA XIII
 
 EMILIA e detti
 
 EMILIA
 In mezzo al mio dolore a parte anch'io
 son de' vostri contenti, illustri sposi.
 Ecco acquista in Arbace
 il suo vindice Roma; e cresceranno
575generosi nemici al mio tiranno.
 ARBACE
 Riserba ad altro tempo
 gli auguri, Emilia; è ancor sospeso il nodo.
 EMILIA
 Si cangiò di pensiero
 Catone o Marzia?
 ARBACE
                                   Eh non ha Marzia un core
580tanto crudele. Ella per me sospira
 tutta costanza e fede;
 da' sguardi suoi, dal suo parlar si vede.
 EMILIA
 Dunque il padre mancò.
 ARBACE
                                               Né pur.
 EMILIA
                                                                Chi è mai
 cagion di tanto indugio?
 MARZIA
                                               Arbace il chiede.
 EMILIA
585Tu prence?
 ARBACE
                        Io, sì.
 EMILIA
                                     Perché?
 ARBACE
                                                      Perché desio
 maggior prova d'amor. Perché ho diletto
 di vederla penare.
 EMILIA
                                    E Marzia il soffre?
 MARZIA
 Che posso far? Di chi ben ama è questa
 la dura legge.
 EMILIA
                            Io non l'intendo e parmi
590il vostro amore inusitato e nuovo.
 ARBACE
 Anch'io poco l'intendo e pur lo provo.
 
    È in ogni core
 diverso amore.
 Chi pena ed ama
595senza speranza;
 dell'incostanza
 chi si compiace;
 questo vuol guerra,
 quello vuol pace;
600v'è fin chi brama
 la crudeltà.
 
    Fra questi miseri
 se vivo anch'io,
 ah non deridere
605l'affanno mio,
 che forse merito
 la tua pietà. (Parte)