Didone abbandonata, Parigi, Quillau, 1755, I

 SCENA XII
 
 SELENE ed ENEA
 
 ENEA
925Allor che Araspe a provocar mi venne,
 del suo signor sostenne
 le ragioni con me. La sua virtude
 se condannar pretendi,
 troppo quel core ingiustamente offendi.
 SELENE
930Ah generoso Enea,
 non fidarti così; d'Osmida ancora
 all'amistà tu credi e pur t'inganna.
 ENEA
 Lo so; ma come Osmida
 non serba Araspe in seno anima infida.
 SELENE
935Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
 di favellar di lui; brama Didone
 teco parlar.
 ENEA
                        Poc'anzi
 dal suo real soggiorno io trassi il piede.
 Se di nuovo mi chiede
940ch'io resti in quest'arena,
 invan s'accrescerà la nostra pena.
 SELENE
 Come fra tanti affanni,
 cor mio, chi t'ama abbandonar potrai?
 ENEA
 Selene, a me cor mio!
 SELENE
945È Didone che parla e non son io.
 ENEA
 Se per la tua germana
 così pietosa sei
 non curar più di me, ritorna a lei.
 Dille che si consoli,
950che ceda al fato e rassereni il ciglio.
 SELENE
 Ah no, cangia, ben mio, cangia consiglio.
 ENEA
 Tu mi chiami tuo bene!
 SELENE
 È Didone che parla e non Selene.
 Se non l'ascolti almeno,
955tu sei troppo inumano.
 ENEA
 L'ascolterò ma l'ascoltarla è vano.
 
    Non cede all'austro irato
 né teme allor che freme
 il turbine sdegnato
960quel monte che sublime
 le cime inalza al ciel.
 
    Costante ad ogni oltraggio
 sempre la fronte avvezza,
 disprezza il caldo raggio,
965non cura il freddo gel. (Parte)