Didone abbandonata, Parigi, Quillau, 1755, II

 SCENA IX
 
 SELENE ed ENEA
 
 ENEA
 Allor che Araspe a provocar mi venne,
 del suo signor sostenne
 le ragioni con me. La sua virtude
795se condannar pretendi,
 troppo quel core ingiustamente offendi.
 SELENE
 Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo
 di favellar di lui; brama Didone
 teco parlar.
 ENEA
                        Poc'anzi
800dal suo real soggiorno io trassi il piede.
 Se di nuovo mi chiede
 ch'io resti in questa arena,
 invan s'accrescerà la nostra pena.
 SELENE
 Come fra tanti affanni,
805cor mio, chi t'ama abbandonar potrai?
 ENEA
 Selene, a me cor mio?
 SELENE
 È Didone che parla e non son io.
 ENEA
 Se per la tua germana
 così pietosa sei,
810non curar più di me, ritorna a lei.
 Dille che si consoli,
 che ceda al fato e rassereni il ciglio.
 SELENE
 Ah no! Cangia ben mio, cangia consiglio.
 ENEA
 Tu mi chiami tuo bene!
 SELENE
815È Didone che parla e non Selene.
 Vieni e l'ascolta. È l'unico conforto
 ch'ella implora da te.
 ENEA
                                         D'un core amante
 quest'è il solito inganno;
 va cercando conforto e trova affanno.
 
820   Tormento il più crudele
 d'ogni crudel tormento
 è il barbaro momento
 che in due divide un cor.
 
    È affanno sì tiranno
825che un'alma nol sostiene;
 ah! Nol provar Selene,
 se nol provasti ancor. (Parte)