Didone abbandonata, Parigi, Quillau, 1755, II

 SCENA ULTIMA
 
 DIDONE sola
 
 DIDONE
 Ah che dissi infelice? A qual eccesso
1355mi trasse il mio furore?
 Oh dio! Cresce l'orrore. Ovunque io miro,
 mi vien la morte e lo spavento in faccia;
 trema la reggia e di cader minaccia.
 Selene, Osmida, ah tutti
1360tutti cedeste alla mia sorte infida;
 non v'è chi mi soccorra o chi m'uccida.
 
    Vado... Ma dove?... Oh dio!
 Resto... Ma poi... che fo!...
 Dunque morir dovrò,
1365senza trovar pietà?
 
 E v'è tanta viltà nel petto mio?
 No no; si mora e l'infedele Enea
 abbia nel mio destino
 un augurio funesto al suo camino.
1370Precipiti Cartago,
 arda la reggia e sia
 il cenere di lei la tomba mia. (Dicendo l’ultime parole corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia; e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo che si sollevano alla sua caduta. Nel tempo medesimo su l’ultimo orizonte comincia a gonfiarsi il mare e ad avanzarsi lentamente verso la reggia, tutto adombrato al di sopra da dense nuvole e secondato dal tumulto di strepitosa sinfonia. Nell’avvicinarsi all’incendio a proporzione della maggior resistenza del fuoco, va crescendo la violenza dell’acque. Il furioso alternar dell’onde, il frangersi ed il biancheggiar di quelle nell’incontro delle opposte ruine, lo stesso fragor de’ tuoni, l’interrotto lume de’ lampi e quel continuo muggito marino, che suole accompagnar le tempeste, rappresentano l’ostinato contrasto dei due nemici elementi. Trionfando finalmente per tutto sul foco estinto le acque vincitrici, si rasserena improvisamente il cielo; si dileguano le nubi; si cangia l’orrida in lieta sinfonia; e dal seno dell’onde già placate e tranquille sorge la ricca e luminosa reggia di Nettuno. Nel mezzo di quella assiso nella sua lucida conca, tirata da mostri marini e circondata da festive schiere di nereidi, di sirene e di tritoni, comparisce il nume che appoggiato al gran tridente parla nel seguente tenore)